Cass. sez. lav., 7.2.2004, n. 2383 – Art. 1751 c.c. – Inderogabilità
(Omissis) Come questa Corte suprema ha avuto modo di affermare (Cass. 30 agosto 2000, n. 11402; 29 luglio 2002, n. 11189) l’art. 19 della direttiva CEE n. 86/653 vieta alle parti del contratto di agenzia di derogare, prima della sua scadenza, ai precedenti art. 17 e 18 a detrimento dell’agente commerciale, ma non impedisce una modificazione pattizia che non sia pregiudizievole per l’agente medesimo e, a fortiori non impedisce una deroga, non peggiorativa della disciplina legale, in sede di conclusione del contratto. E’ comunque, assorbente rilevare che il legislatore, nel recepire la norma comunitaria con l’art. 1751, comma sesto c. civ., come sostituito dall’art. 4 d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, ha stabilito che le disposizioni di cui allo stesso articolo “sono inerogabili a svantaggio dell’agente”. Non si tratta, dunque, di una inderogabilità assoluta e, se la deroga non pregiudizievole per l’agente è consentita alle parti non vi sono ragioni per ritenere che analoga deroga non possa essere consentito alla contrattazione collettiva (anche se questa non è dalla norma espressamente annoverata tra le fonti regolatrici, contrariamente alla sua formulazione originaria che contemplava le norme corporative), considerato l’ampio spazio che alla rappresentanza delle organizzazioni sindacali di categoria riserva l’ordinamento italiano. Questa Corte (sent. 11402/2000, cit.) ha anche affermato che la valutazione se la regolamentazione pattizia sia o non pregiudizievole per l’agente, rispetto a quella legale – con la conseguenza, nella prima ipotesi, della nullità delle clausole relative – deve essere operata ex ante, non potendosi né sul piano obiettivo, né su quello dell’affidamento delle parti, specie in un rapporto di durata, giudicare della validità delle clausole del negozio costitutivo che tale rapporto sono destinate a regolare nel suo ulteriore svolgimento e che costituiscono dunque un prius logico – giuridico), alla luce del risultato economico (il quale rappresenta una conseguenza degli sviluppi del rapporto) che al momento della sua cessazione le parti concretamente conseguirebbero a seconda che si applichi il regime convenzionale o quello legale. Non sembra, invece, condivisibile il diverso orientamento espresso da questa stessa Corte con la sentenza 29 luglio 2002, n. 11899 che – muovendo dalla premessa, non unanimemente condivisa dalla dottrina e contraria al dato testuale vigente dell’art. 1751 c. civ., secondo cui il riferimento da parte dell’art. 1751 c. civ. al criterio dell’equità (che prevede anche l’esame di tutte le circostanze del caso) vale non solo per stabilire quando l’indennità deve essere erogata, ma anche per la determinazione dell’indennità stessa – ritiene prevalente la disciplina legale su quella collettiva tutte le volte che l’applicazione del criterio stabilito dalla legge conduca a un trattamento in concerto più favorevole all’agente, restando irrilevante una valutazione ex ante della maggiore convenienza della regolamentazione pattizia rispetto a quella legale. Infatti, siffatta interpretazione contrasta, anzitutto, con il dato letterale dell’art. 1751, primo comma, primo alinea (vigente al momento della risoluzione del contratto, prima della sua sostituzione ad opera dell’art. 4 d.Igs. 10 settembre 1991, n. 303), secondo cui era necessaria la ricorrenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) incremento della clientela (o degli affari, con i clienti esistenti, e permanenza di connessi sostanziali vantaggi per il preponente derivanti dagli affari con tali clienti) e b) il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. Anche ad ammettere che, ancor prima della ricordata sostituzione dell’alinea del comma primo dell’art. 1751 cit., entrambe le condizioni dovessero concorrere congiuntamente (conformemente alla previsione della direttiva europea) per la spettanza dell’indennità di risoluzione, resta l’assenza nell’art. 1751 c. civ. di un qualsiasi criterio di determinazione dell’indennità, salva l’indicazione di un “tetto”‘ massimo. Significativa della riluttanza del legislatore nazionale a stabilire un criterio specifico di determinazione (se non nel massimo) dell’indennità, è la circostanza che neppur dopo che era stato sollecitato, il 23 luglio 1996, dalla Commissione europea a modificare il testo dell’art. 1751, primo comma, c. civ., laddove, discostandosi dal testo della Direttiva, aveva posto in alternativa e non in rapporto di necessaria coesistenza, le due condizioni di spettanza dell’indennità – non abbia ritenuto di adeguare la norma interna alla Direttiva medesima, introducendo anche l’indicazione ulteriore, in questa contenuta, che l’indennità spettava “nella misura in cui” si fossero verificate le due condizioni predette, previste dall’art. 17 della direttiva e letteralmente recepite nel testo dell’art. 1751 c. civ.. Questa Corte (sentenza 6 agosto 2002, n. 11791) ha già sottolineato che l’obbligo del giudice nazionale di interpretare la normativa interna alla luce di quella comunitaria incontra il limite che la prima consenta tale adeguamento interpretativo, dovendo altrimenti applicarsi la norma così come voluta dal giudice nazionale. Poste tali premesse, il ricorso all’equità “integrativa” in sede di valutazione finale travalicherebbe comunque i criteri stabiliti preventivamente in via convenzionale dalle parti rendendo, malgrado tali pattuizioni, il rapporto privo di regolamentazione certa sino alla statuizione giudiziale che stabilisca l’equità o l’iniquità della liquidazione dell’indennità in base al criterio (di ispirazione al diritto tedesco) dell’incremento di clientela e di affari, temperato dal riscontro, in particolare della perdita delle provvigioni dell’agente. L’ordinamento, di regola, prevede il ricorso all’equità “integrativa” quale criterio residuale, in assenza di norme di legge o di contratto collettivo o di usi (cfr., ad esempio, l’art. 2110 c. civ.), ma non quale fonte esclusiva di regolamentazione del rapporto. E’ stato osservato in dottrina e anche dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 6 agosto 2002, n. 11791) che, se l’art. 1751 c. civ. è inderogabile a svantaggio dell’agente, tale inderogabilità deve essere riferita a quanto la norma prescrive; e se questa non prevede i criteri di calcolo e neppure una indennità minima, non possono incorrere in una deroga alla norma le parti individuali o collettive che preventivamente stabiliscano l’ammontare dell’indennità o i criteri per il calcolo di essa. In ogni caso il confronto dovrebbe necessariamente attuarsi tra due diverse regolamentazioni: quella legale e quella convenzionale. Per contro, proponendosi un confronto tra l’indennità che spetterebbe secondo i risultati finali del rapporto di agenzia, peraltro in base a una valutazione equitativa del giudice di merito nella sua determinazione, e quella che deriverebbe secondo gli accordi collettivi, non si avrebbe, come detto, un raffronto tra due diverse regolamentazioni (per stabilire quale delle due sia più favorevole all’agente), ma il confronto alla stregua di una determinazione giudiziale equitativa (oltretutto, sostanzialmente soggettivistica). Siffatta ricostruzione finirebbe per comportare in ogni caso l’intervento del giudice (o una determinazione postuma, di carattere conciliativo, delle parti) per la definizione finale dell’indennità spettante, talché il rapporto, per l’innanzi, rimarrebbe privo di una regolamentazione concreta dei reciproci Interessi delle parti e renderebbe per di più indeterminabili anche gli accantonamenti presso l’ente previdenziale da parte del preponente. Si è anche osservato che se la valutazione circa il maggior favore delle pattuizioni dovesse operarsi solo alla fine del rapporto, sulla base non del raffronto tra le disposizioni normative e quelle pattizie, ma sulla base degli effetti, si perverrebbe alla conclusione che una medesima clausola sarebbe da considerare talora valida in quanto non contrastante con la norma e talaltra invalida: o addirittura, in relazione alle alterne vicende del rapporto di agenzia, la stessa clausola sarebbe valida o invalida a seconda del momento in cui lo stesso viene a cessare. In via di esempio, si è rilevato in dottrina che nell’ipotesi di un rapporto di lunga durata, ma con scarsi affari nell’ultimo quinquennio, il sistema di calcolo, per aliquote annue e per scaglioni, secondo l’accordo collettivo del 1992, potrebbe risultare più favorevole anche rispetto al massimo di una annualità di provvigioni sulla media dell’ultimo quinquennio previsto dall’art. 1751 c. civ., sicché in tale ipotesi la valutazione “ex post” mostra, oltre che la indeterminatezza della regola, una aleatorietà dell’ammontare del credito non strettamente correlata alla non prevedibilità dei risultati della gestione, ma anche alla circostanza che da essi dipenderebbe pure il sistema di determinazione dell’indennità: la dottrina non ha mancato poi di mettere in luce anche altri fattori, quali la maggiore o minore difficoltà di prova in ordine alla sussistenza dei risultati dell’attività dell’agente, che potrebbero far ritenere non deteriore la regolamentazione pattizia. V’è da aggiungere che anche una soluzione composita che ritenesse il rapporto soggetto alla regolamentazione pattizia, salvo che il giudice non la ritenga, all’esito finale del rapporto medesimo, non equa e possa quindi operare un intervento equilibratore, si presterebbe alle medesime censure perché si tratterebbe pur sempre, nella sostanza, di una regola imposta “a giuochi fatti”, al di fuori delle specifiche previsioni delle parti collettive (cui, nel caso di specie, risultano essersi adeguate le parti del rapporto) volte a superare proprio l’indeterminatezza della disposizione codicistica. (Omissis)