Cass. sez. lav., 6.8.2002, n. 11791 – Art. 1751 c.c. – Indennità di cessazione – Presupposti

(Omissis) a) Com’è noto, il vecchio testo dall’art. 1751 cod. civ. prevedeva l’erogazione di un’indennità, in “tutti” i casi di scioglimento del contratto di agenzia a tempo indeterminato, che, quanto alla misura, veniva rigidamente proporzionata alle provvigioni percepite dall’agente nel corso del rapporto; per la determinazione dell’indennità, il citato art. 1751 rinviava agli accordi economici collettivi, che prevedevano l’accantonamento al Fondo indennità di risoluzione del rapporto (Firr) presso l’Enasarco; a detta indennità si aggiungeva la cd. “indennità suppletiva” prevista dalla contrattazione collettiva, che ne disponeva l’erogazione solo in caso di risoluzione per fatto non imputabile all’agente. b) Il nuovo testo dall’art. 1751 cod. civ. ha invece sottoposto il diritto all’indennità a precise condizioni (previste in via alternativa dal decreto legislativo del 1991 ed in via cumulativa dal decreto legislativo del 1999), che sono le seguenti: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. Com’è noto, il legislatore nazionale – nell’alternativa contemplata dalla direttiva Cee 86-653 – ha scelto il cd. esempio tedesco (riproducendo letteralmente il testo del paragrafo 2 dell’art. 17 della direttiva), per cui l’indennità non spetta in tutti i casi di scioglimento, ma solo al cd. agente meritevole, che ha sostanzialmente ampliato il volume d’affari del preponente. La direttiva non detta alcun criterio preciso per la determinazione della indennità, che è pertanto rimessa agli Stati membri; peraltro alcuni commentatori hanno voluto individuare nell’espressione usata nell’art. 17 della direttiva: “L’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui…” l’indicazione di un principio cui le legislazioni nazionali dovrebbero ispirarsi nella quantificazione e cioè l’aumento di clientela ed lo sviluppo degli affari del preponente. Pertanto, secondo la direttiva, le circostanze predette , ossia il procacciamento di nuovi clienti ed il sensibile sviluppo degli affari del preponente ecc, mentre sicuramente fungono da condizione per l’erogazione dell’indennità, varrebbero anche come criterio per la sua determinazione. La disposizione interna, viceversa, non fissa nè la misura, e neppure alcun criterio di commisurazione dell’indennità di scioglimento del contratto (giacché non riproduce neppure la dizione sopra ricordata della disposizione comunitaria “L’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui… “), limitandosi a fissare un “tetto” massimo (pari alla media provvisionale degli ultimi cinque anni). c) In tale contesto normativo ( esclusione della garanzia generalizzata della indennità per lo scioglimento del contratto, il cui diritto è invece sottoposto a precise condizioni, e mancanza di criteri per la sua quantificazione), le associazioni sindacali di categoria hanno stipulato l’accordo collettivo per cui è causa. Con esso è stato reintrodotto il diritto alla indennità in via generalizzata ed un criterio univoco di calcolo, che effettivamente può risultare scarsamente proficuo per gli agenti che abbiano apportato un notevole sviluppo agli affari del preponente. d) Secondo il ricorrente l’accordo economico collettivo sarebbe illegittimo in quanto integrante una deroga in peius rispetto alla disciplina legale, che è espressamente vietata dal penultimo comma dell’art. 1751. La tesi non è condivisibile, giacché – come già rilevato – manca nella legge qualsiasi criterio di determinazione dell’indennità, di talché il sistema introdotto dalla contrattazione collettiva non trova in realtà alcun limite al suo dispiegarsi, se non il limite massimo della media delle cinque annualità. Pertanto il divieto della deroga in peius previsto dal penultimo comma dell’art. 1751 – mentre varrebbe sicuramente a rendere illegittimo qualunque accordo collettivo o individuale con il quale si richiedessero ulteriori condizioni (in aggiunta a quelle già previste) per integrare il diritto all’indennità di scioglimento – viceversa, rispetto alla determinazione del quantum, la deroga da parte della contrattazione non è neppure prospettabile teoricamente, dovendo essere esclusa in radice per mancanza della norma da derogare, considerato appunto che la disposizione di legge non detta alcun criterio. Non si può quindi leggere l’art. 1751, come se garantisse all’agente meritevole (ossia a colui che ha apportato un notevole sviluppo agli affari del preponente, secondo le previsioni della prima parte della disposizione) il pagamento dell’importo massimo della indennità, giacché l’apporto di clientela e l’equità rappresentano solo “le condizioni” per accertare se l’indennità deve essere corrisposta e non anche “i criteri per calcolarla”, mentre la media provvisionale degli ultimi cinque anni non è la misura spettante, ma è solo il limite che nella quantificazione non può essere superato. Invero, proprio la mancanza di un sia pur generico criterio di calcolo e la mera fissazione di un tetto massimo di misura (pari a quello di cui al paragrafo 2b) dell’art. 17 della direttiva) inducono a ritenere che il legislatore abbia inteso rimettere alla contrattazione, collettiva o individuale, la determinazione dell’indennità, com’era peraltro secondo la disciplina precedente. Non può allora considerarsi derogatorio in peius un sistema di determinazione dell’indennità, come quello di cui all’accordo collettivo in oggetto, che impedisse in ogni caso il raggiungimento del “massimo”, al cospetto di una disposizione di legge che pure astrattamente lo consentirebbe (giacché il divieto verte sul suo superamento); infatti quel “massimo” è previsto solo astrattamente, perché non vengono poi indicati nè criteri nè condizioni per il suo conseguimento, e vale quindi come mero “limite” rispetto a criteri da definire, che vengono rimessi all’autonomia collettiva ed individuale. Per esplicitare ulteriormente, si può osservare che anche ove, nel caso concreto, emergesse una notevolissima acquisizione di nuovi clienti, un sensibilissimo sviluppo degli affari del preponente ed a carico dell’agente una perdita di provvigioni di rilevante entità, non per questo la legge darebbe titolo alla misura massima dell’indennità: l’esistenza di dette condizioni farebbe sorgere innegabilmente il diritto all’indennità, ma non darebbe titolo all’agente di ottenerla nella misura massima, giacché la legge, mentre consente implicitamente la possibilità di ottenere il massimo, tace poi sulle condizioni necessarie per conseguirlo, e quindi non è norma attributiva di un diritto. La contrattazione trova pertanto nella legge l’insuperabilità del tetto massimo come unico limite ai criteri di quantificazione teoricamente possibili (cfr. nello stesso senso Cass. n. 11402 del 30 agosto 2000). Peraltro si trae conferma della perdurante vigenza, e quindi della legittimità, del sistema che articola il calcolo della indennità di scioglimento del contratto sulla base delle provvigioni ricevute nel corso del rapporto (e cioè del sistema, di cui agli accordi economici collettivi del 20 giugno 1956 e 13 ottobre 1958 validi erga omnes, che prevede l’accantonamento presso l’Enasarco, fondo indennità risoluzione del rapporto, dei contributi – a carico sia dell’agente sia del preponente – sulle provvigioni versate) considerando che – nonostante la nuova formulazione dall’art. 1751 cod. civ. – nessuna modifica è stata apportata all’art. 2 della legge 2 febbraio 1973 n. 12 (Natura e compiti dell’Enasarco), ove si dispone che detto ente “provvede alla gestione dell’indennità di scioglimento del contratto di agenzia”, con i contributi accantonati sulla base delle provvigioni. È infondato anche il rilievo secondo cui la diversità di trattamento degli agenti nell’ambito europeo configgerebbe con lo scopo della direttiva di. attuare il ravvicinamento delle legislazione e l’omogeneizzazione dei trattamenti giuridici nell’ambito dell’Unione, perché la direttiva 86-653 Cee – la quale peraltro già offre preliminarmente la scelta tra due modelli alternativi, come risulta dall’art. 17 (il modello francese, fondato sulla riparazione del pregiudizio causato dalla risoluzione del rapporto, e modello tedesco, fondato sull’indennità di cessazione) – non intende addivenire alla parificazione dei trattamenti, ma dettare norme solo programmatiche, che necessitano poi della attuazione da parte degli Stati membri, che non potrà che essere differenziata. d) (…) Si rileva in primo luogo che nessun diritto può direttamente sorgere in capo all’agente dalla disposizione comunitaria, che non può ritenersi immediatamente precettiva (self executing), giacché, come già rilevano, non detta affatto i criteri di liquidazione dell’indennità, ma solo i principi a cui gli stati membri devono attenersi ed è quindi sicuramente bisognevole di una legge attuazione. Appare quindi incongrua l’istanza del ricorrente di rinvio della questione alla Corte di Giustizia, giacché il giudice nazionale, le cui decisioni non siano impugnabili secondo (ordinamento interno, non ha l’obbligo di rimessione della causa alla Corte comunitaria ai sensi dall’art. 177 del Trattato, quando, come nella fattispecie ora all’esame del Collegio, “prima facie” possa essere stabilito che la normativa comunitaria non è in alcun modo applicabile nel caso concreto, come quando si tratti di direttive comunitarie che siano evidentemente prive del carattere di precettività perché ispirate a fini meramente programmatici (cfr. Cass. 11 maggio 1995 n. 5133). Ma va ulteriormente considerato che, per affermare la dedotta contrarietà degli accordi collettivi ai criteri di massima indicati dalla direttiva, sarebbe necessario dimostrare che il sistema di calcolo stabilito dagli accordi sia confliggente con gli elementi a cui la direttiva fa riferimento, e cioè il procacciamento di nuovi clienti per il preponente ed il sensibile sviluppo degli affari; il che però dovrebbe escludersi, giacché il sistema delineato dalla contrattazione collettiva, essendo basato sulla misura delle provvigioni, è idoneo pur sempre a garantire all’agente meritevole un trattamento migliore. Nè la disposizione comunitaria potrebbe condurre ad una interpretazione della disposizione nazionale nel senso propugnato dai ricorrente, dal momento che, anche ove la formula di cui all’art. 17 della direttiva (L’agente commerciale ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui) sancisse effettivamente l’obbligo degli Stati membri di adottare un criterio di calcolo dell’indennità parametrato al valore della clientela procacciata, vige tuttavia il principio per cui l’obbligo del giudice nazionale di addivenire ad una interpretazione adeguatrice alla direttiva comunitaria viene meno ove la disposizione nazionale non lo consenta, e nella specie, come già rilevato, nulla autorizza ad interpretare l’art. 1751 cod. civ. nel senso voluto dall’agente. e) Parimenti infondata è la prospettazione per cui, ai fini della verifica della vietata deroga in peius, il raffronto tra la disciplina codicistica e quella di cui all’AEC si dovrebbe effettuare in concreto, e cioè con riferimento ai risultati che si otterrebbero applicando le disposizioni al caso specifico e non ex ante in termini generali ed astratti. Invero, come già rilevato, nessun raffronto sui criteri di calcolo appare possibile nè in astratto nè in concreto tra legge e disciplina contrattuale, perché la prima non li detta e quindi manca uno dei termini di paragone. (Omissis)