Cass. sez. lav., 18.10.2004, n. 20410 – Indennità ex art. 1751 c.c. – Rapporto con gli AEC
(Omissis) 6. Ritiene questa Corte che sia necessario investire la Corte di giustizia delle Comunità europee della questione pregiudiziale relativa all’interpretazione degli articoli 17 e 19 della direttiva 86/653 del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. Al fine di illustrare le ragioni della relativa richiesta e il suo specifico oggetto, è opportuno ricordare in che termini il legislatore italiano ha dato attuazione alla suindicata direttiva per quanto riguarda l’indennità prevista dai relativi articoli 17-19, quale è il tenore dell’accordo collettivo intervenuto in materia, e quali orientamenti giurisprudenziali si sono manifestati riguardo alle questioni poste da dette fonti normative e contrattuali. 7. Il Cc prevedeva, all’articolo 1751, così come modificato dalla legge 911/71, l’erogazione di un’indennità in tutti i casi di scioglimento di un contratto di agenzia a tempo indeterminato. L’indennità doveva essere proporzionale all’ammontare delle provvigioni liquidate nel corso del rapporto e la sua misura era stabilita dagli accordi o contratti collettivi, oppure dagli usi e, in difetto, doveva essere determinata dal giudice secondo equità. Tale indennità aveva pertanto la natura giuridica di retribuzione differita (analoga a quella dell’indennità corrisposta al lavoratore subordinato al momento della cessazione del rapporto per qualsiasi causa), per quanto gli accordi collettivi ne prevedessero l’accantonamento in un fondo costituito presso l’Istituto Enasarco e di conseguenza l’emolumento assumesse anche una funzione previdenziale (Cassazione 805/82). Inoltre gli accordi collettivi, da una certa data in poi, avevano previsto un’ulteriore indennità, denominata indennità suppletiva di clientela, spettante solo in ipotesi di risoluzione ad iniziativa della ditta preponente non giustificata da fatto imputabile all’agente e quindi sottoposta a particolari regole e limitazioni che non trovavano corrispondenza nella disciplina legale della indennità di fine rapporto (cfr. Cassazione 4586/91). Al fine di dare attuazione alla direttiva comunitaria 86/653 e ad altre direttive, la legge 428/90 ha delegato il governo ad emanare appositi decreti legislativi e ha determinato, a norma dell’articolo 76 della Costituzione, i principi e i criteri direttivi a cui il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi. In particolare l’articolo 2, comma 1, lettera f), della legge di delega ha previsto che «i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime, tenuto conto anche delle eventuali modificazioni intervenute entro il termine della delega». Sulla base di tale legge di delega, è stato emanato il D.Lgs 1991/91, 303, il cui articolo 4 ha sostituito il previgente testo dell’articolo 1751 Cc con il seguente testo: «All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorra almeno una delle seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. L’indennità non è dovuta: quando il preponente risolve il contratto per un’inadempienza imputabile all’agente, la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto; quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente, quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività; quando, ai sensi di un accordo con il preponente, l’agente cede ad un terzo i diritti e gli obblighi che ha in virtù del contratto d’agenzia. L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione. La concessione dell’indennità non priva comunque l’agente del diritto all’eventuale risarcimento dei danni. L’agente decade dal diritto all’indennità prevista dal presente articolo se, nel termine di un anno dallo scioglimento del rapporto, omette di comunicare al preponente l’intenzione di far valere i propri diritti. Le disposizioni di cui al presente articolo sono inderogabili a svantaggio dell’agente». La Commissione delle Comunità europee non ritenne che l’Italia avesse dato attuazione del tutto corretta alla direttiva con riferimento all’indennità in questione, poiché aveva trattato le previsioni dei due “trattini” dell’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), come due condizioni alternative, invece che cumulative, e avviò un procedimento di infrazione (cfr. sul punto anche la relazione in data 23 luglio 1996 della Commissione, predisposta ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 6, della direttiva). Di conseguenza, sulla base della legge di delega 128/98 – il cui art 2 contiene nuovamente il criterio direttivo della piena conformità alle prescrizioni delle direttive comunitarie da attuare – venne emanato il D.Lgs 65/1999, contenente varie modifiche della disciplina del contratto di agenzia, allo scopo di dare più fedele attuazione alla direttiva comunitaria in materia. Dell’articolo 1751 Cc venne modificato il primo comma, che ora recita: «All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni». È stato inoltre inserito alla fine un nuovo comma, prevedente la corresponsione dell’indennità anche quando il rapporto cessa per morte dell’agente. 8. A seguito dell’attuazione data dall’Italia alla direttiva con il D.Lgs 303/91, tra la Confcommercio (organizzazione rappresentativa di aziende dei settori del commercio, turismo e servizi) e la FNAARC (organizzazione rappresentativa di agenti e rappresentanti di commercio) venne stipulato, in data 27 novembre 1992, un accordo del seguente tenore (come da testo riportato nel ricorso principale, in ordine al quale non sono state formulate contestazioni in questa sede): «In riferimento a quanto previsto dall’articolo 1751 Cc, come modificato dall’articolo 4 D.Lgs 303/91, ed in particolar modo al principio dell’equità, in tutti i casi di cessazione del rapporto, verrà corrisposta all’agente o rappresentante un’indennità, la misura della quale sarà pari all’1 % sull’ammontare globale delle provvigioni maturate e liquidate durante il corso del rapporto. La suddetta aliquota base sarà integrata nelle seguenti misure: A. Agenti e Rappresentanti con obbligo di esclusiva per una sola ditta: – 3% sulle provvigioni fino a lire 24 milioni annui; – 1% sulla quota di provvigioni tra lire 24. 000. 001 e lire 36 milioni annui. B. Agenti e rappresentanti senza obbligo di esclusiva per una sola ditta: – 3% sulle provvigioni fino a lire 12. 000. 000 annui; – 1% sulla quota di provvigioni tra lire 12.001.000 e lire 18.000.000 annui. Da tale indennità deve detrarsi quanto l’agente o rappresentante abbia diritto di ottenere per effetto di atti di previdenza volontariamente compiuti dal preponente. » Seguono disposizioni sulla computabilità anche di somme corrisposte a titolo di rimborso o concorso spese e sull’accantonamento annuale delle somme dovute presso l’Enasarco (un istituto previdenziale) e quindi la precisazione che «le parti si danno reciprocamente atto che con quanto sopra hanno inteso soddisfare il criterio di equità di cui al già citato articolo 1751 Cc». Segue ulteriormente una seconda parte (“punto”) prevedente che «sempre in attuazione dell’articolo 1751 Cc, in aggiunta alla somma di cui al precedente punto I della presente normativa, verrà corrisposto un ulteriore importo» (per il quale l’accordo utilizza poi la denominazione di “indennità di clientela”), corrisposto «se il contratto a tempo indeterminato si scioglie ad iniziativa della casa mandante per fatto non imputabile all’agente o rappresentante» oppure (sempreché il rapporto sia in atto da almeno un anno) «in caso di dimissioni dell’agente o rappresentante dovute a sua invalidità permanente e totale o successive al conseguimento della pensione di vecchiaia Enasarco». La misura di tale quota ulteriore è fissata nel: «- 3 % sulle provvigioni maturate ne primi 3 anni di durata del rapporto di agenzia; – 3,50% sulle provvigioni maturate dal quarto al sesto anno compiuto; 4% sulle provvigioni maturate negli anni successivi». Al punto III «Le parti si danno atto che il sistema sopra concordato in materia di aliquote e scaglioni soddisfa il principio di cui al terzo comma dell’articolo 1751 Cc», e il punto IV prevede la corresponsione agli credi dell’indennità di cui ai punti I e II. Segue una “dichiarazione a verbale” secondo cui «le parti confermano che le presenti disposizioni collettive in materia di trattamento di fine rapporto di agenzia, applicative dell’articolo 1751 Cc, costituiscono complessivamente una condizione di miglior favore rispetto alla disciplina di legge. Esse sono correlative e inscindibili tra di loro e non sono cumulabili con alcun altro trattamento». Infine viene indicata la data di decorrenza della nuova disciplina (1 gennaio 1993 e 1 gennaio 1994, a seconda della data di instaurazione del rapporto) e si precisa che per l’anzianità precedentemente maturata resta confermata la regolamentazione di cui all’accordo economico collettivo in data 9 giugno 1988. 9. Così come la giurisprudenza di merito e la dottrina, anche la giurisprudenza di questa Corte di legittimità non è pervenuta a conclusioni uniformi circa la legittimità, e quindi la validità, della disciplina posta dall’accordo contrattuale collettivo precedentemente citato (o da accordi analoghi relativi ad altri settori produttivi). Secondo un indirizzo minoritario nell’ambito della giurisprudenza di legittimità (e rappresentato da Cassazione 11189/02), la direttiva europea (il cui contenuto – si afferma – deve valere come criterio interpretativo per il giudice nazionale ed in caso di contrasto prevalere sul testo introdotto nell’ordinamento interno), ispirandosi alla disciplina dell’ordinamento tedesco, ha configurato un’indennità di tipo assolutamente “meritocratico” che tende a compensare coloro che abbiano arrecato dei vantaggi alla preponente e poco o nulla a chi non abbia significativamente incrementato il portafoglio degli ordini. Gli accordi economici collettivi, invece, hanno attribuito le stesse indennità indistintamente a tutti gli agenti, in misure percentuali fisse, in relazione a vari scaglioni di fatturato, senza attribuire alcuna rilevanza agli aumenti di fatturato, riferibili al buon lavoro degli agenti. Ne consegue che gli Aec prevedono un trattamento più favorevole della disciplina del codice (articolo 1751 Cc) solo per quegli agenti che non siano in grado di dimostrare i presupposti previsti da quest’ultima. Pertanto la disciplina del codice deve trovare piena applicazione in tutti i casi in cui l’agente dimostri l’esistenza dei relativi presupposti. Invece, secondo l’indirizzo prevalente (rappresentato da Cassazione 11402/00, 15726/03, 2383/04 e 6162/04), tenuto presente che è consentita una deroga della disciplina legale che non sia “a svantaggio dell’agente”, la valutazione circa il carattere o meno di maggior favore del trattamento di fine rapporto previsto dagli accordi collettivi deve essere effettuata non in concreto ed ex post, sulla base della misura dell’indennità ritenuta liquidabile dal giudice, ma ex ante, sulla base del confronto tra la regolamentazione legale e quella contrattuale. Al riguardo si è osservato, in particolare, che non si può «né sul piano obiettivo, né su quello dell’affidamento delle parti, specie in un rapporto di durata, giudicare della validità delle clausole del negozio costitutivo che tale rapporto sono destinate a regolare nel suo ulteriore svolgimento (e che costituiscono dunque un prius logico e giuridico), alla luce del risultato economico (il quale rappresenta una conseguenza degli sviluppi del rapporto) che al momento della sua cessazione le parti concretamente conseguirebbero a seconda che si applichi il regime convenzionale o quello legale» (Cassazione 11402/00), e che concettualmente la nozione di derogabilità presuppone un raffronto tra norme e non di risultati concreti della loro applicazione (Cassazione 15726/03). Tale orientamento maggioritario appare almeno implicitamente correlato con l’assunto che possa essere ritenuta di maggior favore (quanto meno sulla base di una valutazione in tal senso del giudice di merito) la disciplina di cui agli accordi collettivi, per il fatto che essi prevedono in ogni caso, e non solo nella ricorrenza delle condizioni di cui alla direttiva comunitaria e alla normativa legale nazionale di attuazione, il diritto alla indennità di fine rapporto e dettano criteri certi e univoci per la sua quantificazione. Ma si è anche sostenuto espressamente che in realtà non è configurabile una deroga in peius da parte dell’accordo contrattuale collettivo, per la ragione che in realtà l’articolo 1751 Cc non contiene alcun preciso criterio di quantificazione dell’indennità, giacché l’apporto di clientela e l’equità rappresentano solo le condizioni per accertare se l’indennità deve essere corrisposta e non anche i criteri per calcolarla, mentre a tal fine non è valorizzabile neanche la media provvigionale degli ultimi cinque anni, che rappresenta un mero tetto massimo. Di conseguenza deve ritenersi che il legislatore abbia inteso rimettere alla contrattazione collettiva o individuale la determinazione dell’indennità (come faceva la previgente disciplina nazionale). E la chiara impostazione della normativa nazionale di attuazione della direttiva comunitaria esclude la rilevanza dell’ipotesi interpretativa secondo cui, specificando la direttiva che l’agente ha diritto ad un’indennità «se e nella misura in cui» sono integrate le condizioni dalla stessa indicate, deve adottarsi un criterio di calcolo dell’indennità parametrato al valore della clientela procacciata (Cassazione 11791/02, i cui argomenti sono valorizzati anche da Cassazione 2383 e 6162/04, già richiamate). 10. È opportuno poi ricordare che nella già citata relazione in data 23 luglio 1996 la Commissione ha rilevato che, dalle informazioni assunte circa le modalità di recepimento e di applicazione dell’articolo 17 della direttiva, si evinceva l’opportunità di un chiarimento di questo articolo e, peraltro, ha esposto con una certa ampiezza gli orientamenti della giurisprudenza tedesca riguardo all’indennità di plusvalore prevista dall’articolo 89b del codice di commercio (norma alla quale si era ispirata la direttiva comunitaria per quanto riguarda il tipo di indennità prevista dal paragrafo 2 dell’articolo 17), osservando che tali orientamenti giurisprudenziali potevano rappresentare un chiarimento dell’articolo 17 e facilitare una più uniforme interpretazione dello stesso. Si è già accennato in questa ordinanza ai metodi di calcolo illustrati dalla Commissione, in sede di esposizione delle deduzioni della parte ricorrente in via incidentale (De Zotti), che a tali metodi ha fatto esplicito riferimento (cfr. paragrafo 5). 11. Tanto premesso, si ribadisce che, ai fini della definizione del presente giudizio, appare necessario un chiarimento interpretativo circa vari punti correlati della disciplina delineata dalla direttiva in questione. Più specificamente, appare necessario comprendere se, alla luce del tenore e della finalità dell’articolo 17 della direttiva e, eventualmente, dei criteri che esso offre riguardo alla quantificazione dell’indennità dal medesimo prevista, il successivo articolo 19 è interpretabile o meno nel senso che la normativa nazionale di attuazione della direttiva può consentire che un accordo (o contratto) collettivo (vincolante per le parti di determinati rapporti) preveda, invece che un’indennità dovuta all’agente nel concorso delle condizioni previste dal paragrafo 2 dell’articolo 17 e liquidabile secondo criteri desumibili dal medesimo, un’indennità che, da un lato, sia dovuta all’agente a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di cui ai due trattini della lettera a) di detto paragrafo 2 (e, per una parte dell’indennità stessa, in ogni caso di risoluzione del rapporto), e, dall’altro, sia quantificabile non già secondo i criteri ricavabili dalla direttiva (e, ove del caso, nell’ammontare massimo dalla medesima precisato), ma secondo i criteri predeterminati dall’accordo economico collettivo. E cioè un’indennità che sia determinata (senza alcun riferimento specifico all’incremento degli affari procurato dall’agente) sulla base di determinate percentuali dei compensi ricevuti dall’agente nel corso del rapporto, con la conseguenza che l’indennità stessa, anche in presenza nella misura massima, o in misura elevata, dei presupposti cui la direttiva collega il diritto all’indennità, in molti casi dovrebbe essere liquidata in misura inferiore (anche molto inferiore) a quella massima prevista dalla direttiva e, comunque, a quella che avrebbe potuto essere stabilita in concreto dal giudice, se egli non avesse dovuto attenersi ai parametri di calcolo di cui all’accordo economico collettivo, invece che ai principi e ai criteri di cui alla direttiva. È necessario anche un chiarimento interpretativo specifico circa le modalità di quantificazione dell’indennità. In particolare appare necessario comprendere se il calcolo dell’indennità deve essere compiuto in maniera analitica, mediante la stima delle ulteriori provvigioni che l’agente presumibilmente avrebbe potuto percepire negli anni successivi alla risoluzione del rapporto, in relazione ai nuovi clienti da lui procurati o al sensibile sviluppo da lui procurato degli affari con clienti preesistenti, e la applicazione solo successiva di eventuali rettifiche dell’importo, in considerazione del criterio dell’equità e del limite massimo previsto dalla direttiva; oppure se siano consentiti metodi di calcolo diversi, e, in particolare, metodi sintetici, che valorizzino più ampiamente il criterio dell’equità e, quale punto di partenza dei computi, il limite massimo specificato dalla direttiva. 12. Con particolare riferimento alla circostanza che nel presente caso è applicabile, per ragioni temporali, l’articolo 1751 Cc nel testo di cui all’articolo 4 del D.Lgs 303/91, e ai rilievi di talune precedenti sentenze di questa Corte secondo cui potrebbe avere particolare rilievo il mancato recepimento da parte dell’articolo 1751 (anche nella versione attualmente vigente) delle parole (riferite all’indennità) “e nella misura in cui”, si osserva che ad avviso di questo collegio non può escludersi fin da ora che, alla luce dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia, possa procedersi ad un’interpretazione della normativa italiana conforme a tali chiarimenti (in applicazione dei noti principi al riguardo enunciati dalla stessa Corte di giustizia e fatti propri anche da questa Corte). È poi opportuno rilevare che l’acquisizione di detti chiarimenti interpretativi sarebbe rilevante anche nel caso in cui non dovesse ritenersi concretamente possibile un’interpretazione della normativa italiana di attuazione conforme alle prescrizioni della direttiva comunitaria, in quanto, come si è già osservato, a tale direttiva è stata data attuazione mediante un procedimento di delegazione legislativa e nelle leggi di delega è contenuto il principio direttivo della piena conformità alle prescrizioni della direttiva. Ne consegue che, nel caso in cui dovesse riscontrarsi la sussistenza tra la direttiva e il D.Lgs del 1991 che ha introdotto il nuovo testo dell’articolo 1751 Cc, di una discrepanza tale da non consentire l’interpretazione del secondo alla luce della prima, si evidenzierebbe una possibile ragione di illegittimità costituzionale del D.Lgs, per violazione dell’articolo 76 Costituzione, riguardo a cui – ad iniziativa di questa stessa Corte (a norma dell’articolo 134 Costituzione e dell’articolo 1 legge costituzionale 1/1948) – dovrebbe essere investita la Corte costituzionale, che potrebbe dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del D.Lgs nella parte in cui non prevedono quanto effettivamente richiesto dalla direttiva. 13. In conclusione, a norma dell’articolo 234 del Trattato Ce, la Corte di giustizia deve essere investita delle indicate questioni interpretative degli articoli 17 e 19 della direttiva 86/653 del Consiglio del 18 dicembre 1986 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. Consegue la sospensione del presente giudizio. Questa ordinanza deve essere notificata alla Corte di giustizia dello Statuto della Corte medesima. (Omissis)