Note a margine sulla questione della prevalenza della normativa comunitaria in tema di indennità di scioglimento

Se il far parte di una collettività importa l’accettazione, per tutti i singoli componenti, delle regole che quella collettività si è data – semprechè, ovviamente, non sussistano, in quanto ammesse, riserve da parte del singolo componente -, il far parte dell’Europa comporta che ogni singolo Stato aderente, nessuno escluso, accetti ed applichi al suo interno quelle regole che la Comunità Europea ha previsto.

Ammettere il contrario si rifletterebbe sullo stesso concetto di unitarietà che presiede ed ha animato, sin dal suo inizio, la nascita della stessa Europa Unita (EU).

E tra queste regole vi è anche quella contenuta nell’art. 17 della direttiva comunitaria 86/653 (sulla disciplina dell’agente commerciale indipendente) in tema di indennità di cessazione del rapporto recepita nell’ordinamento italiano con il d.leg.vo 303/1991 che ha modificato l’art. 1751 c.c.

Norma, quella comunitaria, che nell’ottica di un uniforme trattamento della figura dell’agente commerciale in ambito europeo, traeva il proprio spunto e fondamento nell’esigenza di garantire un trattamento di fine rapporto in favore dell’agente che si vedeva interrotto il rapporto di agenzia da parte della ditta preponente.

Trattamento che doveva comunque tenere conto dei risultati raggiunti dall’agente nel corso del rapporto e che aveva la funzione, nell’ottica del legislatore comunitario, di impedire che la ditta preponente potesse, attraverso ripetuti turn over, avvalersi sempre di nuovi agenti acquisendo i frutti del loro lavoro senza dover corrispondere, all’atto dello scioglimento del rapporto, alcunché o, comunque corrispondendo somme minime a fronte di portafogli di clientela progressivamente incrementati grazie al paziente e capillare lavoro di intermediazione svolto dai singoli agenti succedutisi.

Ed è in tale ottica di corrispettività e di valorizzazione della prestazione dell’agente commerciale che si comprende il perché si sia giunti al riconoscimento in favore di quest’ultimo di una indennità di notevole entità, fino ad un “massimo” di un anno di provvigioni.

Indirizzo, quello espresso dalla direttiva 86/653, pacificamente ed integralmente accolto in tutti gli stati Europei.

Unica eccezione l’Italia.

Eccezione, questa, che veniva (e viene talvolta oggi) giustificata dal fatto che qui già esistevano (ed esistono) gli accordi economici collettivi (AEC) i quali disciplinavano (e disciplinano) l’intera materia del contratto di agenzia, anche sotto il profilo dell’indennità di cessazione.

Argomentazione che non tiene però conto che gli AEC collettivi (tra i quali anche quelli del 2002) non hanno valore di legge né, tantomeno posso derogare ad una legge dello Stato.

Se ciò fosse ammissibile ne verrebbe stravolto l’intero sistema delle fonti (art. 1 preleggi).

Il carattere predominante della legge (e di riflesso della direttiva Cee 86/653) impone quindi di considerare quale norma di riferimento l’art. 1751 c.c. e non certamente gli AEC.

Ed è pertanto alla stregua di tale norma che deve essere determinata l’indennità di cessazione del rapporto.

Né l’aspetto prevalente di tale disposizione normativa può venire sminuito nella sua intensità sostenendosi aprioristicamente che l’art. 1751 c.c. sarebbe peggiorativo per l’agente in quanto su di lui incomberebbero pesanti oneri probatori (probatio diabolica) quali la dimostrazione dell’incremento di clientela e del fatturato; oneri probatori che sarebbero invece insussistenti laddove venissero applicati sic et simpliciter gli AEC i quali non comportano alcuna dimostrazione di fattività da parte dell’agente, essendo l’indennità (suppletiva di clientela) – calcolata percentualmente (nella misura del 3 / 4 percento) sull’ammontare globale delle provvigioni liquidate in costanza di rapporto – comunque dovuta salvo l’eventuale riconoscimento di una ulteriore indennità meritocratica (anch’essa peraltro determinata in misura minima).

Non è chi non veda come il precludere all’agente la dimostrazione della bontà della sua pretesa determinata alla stregua dell’art. 1751 c.c. costituisca già di per sé stesso un trattamento in peius, e quindi peggiorativo, in quanto impedisce allo stesso di poter dimostrare che la somma indennitaria a lui spettante potrebbe essere superiore a quella riconosciutagli dagli AEC.

Va poi ricordato che tale è anche la posizione assunta dall’Avvocato Generale nelle conclusioni presentate il 25 ottobre 2005 nella causa C – 465 / 04 (Honyvem Informazioni Commerciali s.r.l./ Mariella De Zotti) pendente avanti alla Corte di Giustizia sulla questione rimessa dalla Corte di Cassazione relativa alla conciliabilità degli AEC con la direttiva comunitaria 653/1986 e se gli stessi debbano considerarsi prevalenti rispetto a quest’ultima.

Come anche irrilevanti, ai fini dell’applicabilità dell’art. 1751 c.c., sono le deroghe contrattuali che vincolino le parti all’applicazione degli AEC.

Tali deroghe sono infatti nulle quando si rivelino peggiorative per l’agente.

In tal senso dispone il penultimo comma dell’art. 1751 c.c. che sancisce la inderogabilità delle disposizioni di cui all’indicata norma (e quindi anche di determinazione del quantum dell’indennità) quando dette deroghe siano peggiorative per l’agente.

E che gli AEC (ivi compresi quelli del 2002) siano peggiorativi per l’agente risulta per tabulas proprio laddove gli stessi introducono criteri (e misure) generali applicabili indistintamente ad ogni agente senza tenere conto di situazioni tra loro completamente diverse.

Così, ad esempio, mentre l’art. 1751 c.c. subordina il diritto dell’agente all’indennità di cessazione a) all’incremento del fatturato con clienti esistenti o b) all’acquisizione di nuovi clienti – oltre al fatto che degli affari con tali cliente il preponente riceva “ancora sostanziali vantaggi” –, condizioni, queste, che importano il riconoscimento ad un’indennità “fino ad un massimo di un anno provvigioni”, gli AEC del 2002, pur subordinando l’indennità di clientela (nella forma dell’indennità meritocratica) alla ricorrenza delle indicate condizioni ancorano la sua determinazione al monte provvigionale sviluppato dall’agente.

In questo modo non si tiene quindi conto del caso dell’agente che, ad esempio, senza incrementare o incrementando “lievemente” il fatturato della zona, abbia però apportato un incremento del numero dei clienti serviti ed acquisiti dall’azienda.

Situazione questa che, ai sensi dell’art. 1751 c.c., potrebbe comunque comportare il diritto dell’agente ad un’indennità massima di un anno di provvigioni, mentre, se considerata alla stregua degli AEC (v. ad esempio AEC 20.3.2002, sub art. 10), non determina alcun diritto all’ indennità meritocratica in virtù del mancato (o lieve) incremento del fatturato (e delle provvigioni) (A.B.)