Il contratto di concessione non è assimilabile al contratto di agenzia.
La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia 3 ottobre 2007, n. 20775 è tornata sull’annosa questione della natura giuridica del contratto di concessione di vendita.
La vicenda ha origine dalla stipula di un contratto di concessione di vendita con il quale un soggetto “concessionario” si impegnava a vendere gli articoli di un produttore; contratto che secondo quanto prospettato dalla ricorrente, doveva qualificarsi come contratto di agenzia.
Nei primi due gradi del giudizio la società concessionaria risultava soccombente.
Uguale sorte incontrava il ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha infatti condiviso l’assunto dei giudici di merito circa la qualificazione giuridica del contratto intercorso tra le parti in causa ed ha osservato che l’applicazione (in via diretta o invia analogica) della disciplina in tema di agenzia sarebbe stata possibile o nell’ipotesi in cui il rapporto intercorso tra le parti fosse stato carente nella sua disciplina pattizia oppure, nonostante il diverso nome dato dalle parti all’accordo, questo mostrasse le caratteristiche proprie del rapporto di agenzia.
E al riguardo la Cassazione ha precisato: “A tal fine, secondo la società ricorrente, sarebbe decisiva la considerazione che lo scopo principale del contratto era quello di promuovere la vendita dei prodotti da parte della ——–. In senso contrario non si potrebbe invocare: a) il fatto che la (n.d.r. concessionaria) ——– concludeva i contratti in nome proprio, dal momento che è prevista la figura dell’agente con rappresentanza; b) la mancata previsione della provvigione, essendo possibile la previsione di una diversa forma di compenso per le prestazioni dell’agente. Le doglianze sono infondate. E’ sufficiente, in proposito, osservare che, in tanto si sarebbe potuto fare applicazione (diretta o analogica) delle disciplina in tema di agenzia in quanto fosse risultato che il rapporto intercorso tra le parti: a) era carente nella sua disciplina pattizia; b) oppure, nonostante il diverso nomen iuris, aveva le caratteristiche proprie del rapporto di agenzia.”
Si tratta di affermazione condivisibile solo nella sua seconda parte.
Pacifico in giurisprudenza è infatti che il nomen iuris dato dalle parti al contratto tra di esse intercorso deve ritenersi ininfluente ai fini dell’individuazione del reale tipo di contratto intercorso tra le parti, dovendo il giudice verificare che il contenuto dell’accordo possegga gli elementi essenziali del tipo di contratto che le parti hanno scelto di dare all’accordo.
Non convince, poi, la prima parte dell’affermazione poiché se la disciplina pattizia fosse stata carente non si sarebbe potuto ricondurre l’accordo intercorso tra le parti ad un contratto di agenzia dal momento che nessun indicatore portava alla conclusione che si tratta di questo particolare tipo di rapporto parasubordinato.