Controversie di lavoro
Il processo del lavoro segue un rito speciale introdotto dalla legge 11 agosto 1973, n. 533 per la trattazione di tutte le controversie relative a rapporti di lavoro.
Il rito speciale, disciplinato dagli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile, si differenzia da quello ordinario per una maggiore immediatezza e celerità, con più ampi poteri riconosciuti al giudice, e per un preciso favore alla conciliazione della controversia.
Il rito speciale del lavoro si applica a tutte le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato, compresi i rapporti di lavoro alle dipendenze di datori non imprenditori (es. lavoro domestico).
La controversia può riguardare qualsiasi aspetto del rapporto.
Rientrano nella competenza del Giudice del lavoro le controversie attinenti:
l’impugnazione dei licenziamenti
l’applicazione di sanzioni disciplinari
la violazione delle regole relative alla costituzione del rapporto
le pretese di natura retributiva (mensilità, trattamento di fine rapporto, ecc.)
il risarcimento dei danni conseguenti a violazioni di regole imperative (mancata fruizione di ferie, danni da infortunio, mancato versamento dei contributi previdenziali, ecc.)
l’inquadramento del lavoratore (attribuzione a mansioni superiori, demansionamento, ecc.)
la violazione degli obblighi di fedeltà e non concorrenza (artt. 2105 c.c.)
Il rito speciale si applica inoltre a controversie estranee all’ambito del rapporto di lavoro subordinato, quali (art. 409 c.p.c.):
1. rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, se caratterizzati da prestazione d’opera continuativa e coordinata e prevalentemente personale.
2. rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
3. contratti agrari (mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto).
La legge richiede che il ricorrente, prima di adire l’autorità giudiziaria, debba obbligatoriamente esperire un tentativo di conciliazione stragiudiziale.
La conciliazione può essere tentata avanti alla Commissione di conciliazione costituita presso la Direzione provinciale del lavoro (c.d. conciliazione amministrativa) oppure secondo le procedure conciliative previste dai contratti collettivi (c.d. conciliazione sindacale).
La procedura conciliativa ha inizio con la domanda della parte interessata alla Commissione di conciliazione, che entro 10 giorni deve convocare le parti per discutere della controversia.
Dal momento in cui la Commissione comunica alle parti la fissazione della data dell’incontro, si interrompe la prescrizione e rimangono sospesi (sino a 20 giorni dalla conclusione del tentativo) gli eventuali termini di decadenza.
Entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta deve essere espletato il tentativo di conciliazione.
Trascorso inutilmente tale termine, le parti possono proporre domanda al giudice del lavoro.
Se il tentativo di conciliazione riesce, la Commissione ne forma verbale, sottoscritto dalle parti e dal Presidente del collegio.
Il verbale è poi depositato presso la cancelleria del giudice del lavoro competente per territorio, che, su istanza di parte, lo dichiara esecutivo con decreto. Il verbale acquista in tal modo efficacia di titolo esecutivo.
Se la conciliazione non riesce, il verbale riporta le ragioni del mancato accordo, che possono essere tenute in considerazione all’esito del successivo giudizio avanti al giudice del lavoro per la decisione sulle spese di giudizio.
L’espletamento del tentativo costituisce condizione di procedibilità della domanda, la cui mancanza può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice.
Se manca la conciliazione, il giudice sospende il giudizio e fissa un termine perentorio di 60 giorni per la promozione del tentativo.
Il processo deve essere riassunto, pena l’estinzione, nel termine di 180 giorni dalla conclusione del tentativo di conciliazione (o dalla scadenza del termine di 60 giorni dalla richiesta di fissazione del tentativo rimasta senza seguito).
Il tentativo obbligatorio di conciliazione non è invece richiesto per la promozione di alcuni procedimenti avanti al giudice del lavoro: ad es. ricorsi per repressione di condotta antisindacale, procedimenti speciali d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e procedimenti per ingiunzione ex art. 633 c.p.c.
La mancata conciliazione comporta la facoltà per le parti coinvolte di agire avanti il competente Tribunale in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro.
Il giudice del lavoro è istituito esclusivamente nella sede principale del Tribunale.
La sua è una competenza esclusiva per materia; il che significa che il Tribunale è competente a conoscere tutte le controversie indicate nell’ art. 409 c.p.c. indipendentemente dal loro valore.
La competenza per territorio si determina riferendosi al luogo in cui è sorto il rapporto, o quello in cui si trova l’azienda (o una sua dipendenza) nella quale il rapporto ha effettivo svolgimento, o ancora al foro generale delle persone fisiche secondo le regole generali.
Se la controversia attiene a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di agenzia e di rappresentanza commerciale, ha competenza esclusiva il giudice del luogo in cui il collaboratore (o agente, o rappresentante) ha il proprio domicilio.
La domanda si propone con ricorso, il quale deve necessariamente contenere l’indicazione del giudice, le generalità del ricorrente e del convenuto, la determinazione dell’oggetto della domanda, l’esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda, le conclusioni, l’indicazione specifica dei mezzi di prova e in particolare dei documenti prodotti.
Il ricorso va depositato nella cancelleria del giudice, il quale emette fissa con decreto l’udienza di prima comparizione nei successivi 5 giorni.
A tale udienza, che deve essere tenuta entro 60 giorni dalla presentazione del ricorso, le parti devono essere personalmente presenti. Ricorso e decreto devono essere notificati entro 10 giorni al convenuto.
Tra le notifica e l’udienza devono intercorrere almeno 30 giorni.
Il convenuto può costituirsi in giudizio almeno 10 giorni prima dell’udienza, pena la decadenza dalla possibilità di sollevare eccezioni e proporre domande riconvenzionali.
Nella memoria difensiva il convenuto deve prendere posizione in modo preciso sui fatti allegati dal ricorrente, proporre le sue difese, indicare i mezzi di prova e depositare i documenti ritenuti rilevanti.
A pena di decadenza, è tenuto a sollevare le eccezioni non rilevabili d’ufficio e proporre le eventuali domande riconvenzionali.
Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione.
Se una parte non si presenta, il giudice può desumere da tale condotta “argomenti di prova” ex art. 116 c.p.c.
L’ interrogatorio libero non rappresenta tuttavia mezzo di prova, ma serve solo a chiarire al giudice i termini della controversia.
Se la conciliazione riesce, il giudice ne redige verbale che ha efficacia di titolo esecutivo.
Se non riesce, il giudizio procede, dapprima con l’esame delle questioni pregiudiziali e quindi con l’ammissione delle prove richieste dalle parti.
L’ assunzione delle prove può avvenire nella stessa udienza, ma usualmente il giudice rinvia tale incombente ad un’udienza successiva.
Rispetto al rito ordinario, il giudice del lavoro ha poteri più ampi, anche sotto l’aspetto istruttorio.
Egli può, ad esempio, ordinare d’ufficio l’esibizione di documenti, accedere al luogo di lavoro, chiedere informazioni ai sindacati, disporre l’ammissione di qualsiasi mezzo di prova anche fuori dai limiti del codice di procedura (con l’esclusione del solo giuramento), ridurre le liste testimoniali.
Esaurita l’istruttoria, il giudice può fissare una “udienza di discussione”, concedendo alle parti un termine per il deposito di note difensive.
La discussione è orale.
La sentenza è immediatamente esecutiva.
L’esecutività può tuttavia essere sospesa dal giudice d’appello quando <<quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti>> (art. 283 c.p.c.).
Il lavoratore può avviare l’esecuzione anche in base al solo dispositivo della sentenza, possibilità che è invece preclusa al datore di lavoro.
Contro le sentenze pronunciate dal Tribunale la parte soccombente può proporre appello, depositando ricorso nella cancelleria della Corte d’Appello competente, nel termine di 30 giorni se la sentenza le è stata notificata, o in caso contrario entro un anno dalla pubblicazione.
Il ricorso deve contenere le stesse indicazioni previste per la proposizione della domanda in primo grado, nonché la specifica indicazione dei motivi dell’impugnazione.
Il Presidente della Corte nomina il consigliere relatore e fissa con decreto l’udienza di discussione, dandone quindi comunicazione all’appellante.
Ricorso e decreto vanno notificati alla controparte.
Tra la notifica e l’udienza devono intercorrere termini non inferiori a 25 giorni.
L’appellato deve costituirsi almeno 10 giorno prima dell’udienza.
In grado d’appello non è ammesso il mutamento della domanda, né l’introduzione di domande nuove o nuove eccezioni.
Non sono ammessi neppure nuovi mezzi di prova, salvo che il Collegio li ritenga indispensabili ai fini del decidere.
Nell’udienza di discussione, il giudice relatore riassume i termini della controversia, le parti discutono oralmente la causa, e infine il Collegio decide, dando lettura del dispositivo.
Le pronunce in grado d’appello possono essere impugnate con ricorso per cassazione secondo i principi generali in tema di impugnazioni.