Capacità a testimoniare dell’agente

Collegata ai poteri rappresentativi dell’agente è la questione se questi possa essere chiamato a testimoniare in controversie tra preponente e terzo, alla luce di quanto stabilisce l’art. 246 c.p.c. il quale esclude che possano essere assunti quali testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.

Norma, questa, che potrebbe indurre ad escludere l’ammissibilità di una testimonianza dell’agente la quale deve invece ritenersi pienamente ammissibile.

Il fatto che l’agente possa promuovere i procedimenti cautelari ed eventualmente anche instaurare temporaneamente un processo di cognizione non implica affatto di per sé che egli abbia nella causa un interesse proprio, tale da legittimare la sua partecipazione al giudizio (art. 246 c.p.c.); egli infatti, nella veste di sostituto processuale, non fa valere un interesse proprio, bensì tutela un interesse del preponente.

Con ciò, dunque, se da un lato la legge attribuisce all’agente la rappresentanza processuale, dall’altro non si deve intendere tale attribuzione quale una sorta di implicita esclusione della capacità dell’agente di essere ammesso a testimoniare in una causa in cui si controverta sul contratto concluso per suo tramite.

Non può, quindi, escludersi la capacità di testimoniare degli agenti e rappresentanti di commercio, in quanto tali, a meno che essi abbiano nella controversia un loro diritto personale da far valere nei confronti di una delle parti o una responsabilità che abbiano interesse ad escludere.

In questo medesimo senso si orienta anche altra parte della dottrina, secondo la quale la funzione che l’agente svolge come anche i limitati poteri rappresentativi che gli sono conferiti dalla legge (art. 1745 c.c.) o che gli possono essere concessi dal preponente (art. 1752 c.c.) non gli sono d’ostacolo per deporre come teste.

Unica eccezione al riguardo potrebbe essere l’ipotesi in cui l’agente, attivato un procedimento cautelare, intervenga nel medesimo giudizio quale teste; in tal caso si assisterebbe, infatti, alla coesistenza, in capo ad uno stesso soggetto, della qualità di parte e di testimone.